Psicoterapia

La parola psicoterapia deriva dal greco psyckè, che significa anima e therapeia, che significa “io curo”, etimologicamente quindi la psicoterapia è la “cura dell’anima”. Una delle prime tecniche di psicoterapia è stato il cosiddetto “trattamento morale” di Pinel, fondatore della moderna psichiatria, che consisteva in un metodo di cura basato sulla restaurazione di un corretto rapporto tra l’individuo e le sue passioni. Le origini più remote della psicoterapia sono da ricercare dunque nella medicina, da Ippocrate, che ha sottratto la medicina all’influenza della magia e del mito, alla medicina moderna, in cui conoscere i bisogni del paziente e prendersene cura è parte integrante della medicina ed elemento di base di ogni psicoterapia.

Definire la psicoterapia non è semplice, molteplici sono gli orientamenti psicoterapeutici, per cui non è possibile darle una definizione “universale”. Per Corsini (1996) si tratta, dal punto di vista formale, di un processo di interazione tra due parti, che agiscono al fine di alleviare il malessere che si verifica in una di esse (il paziente), in relazione a una o a tutte le seguenti aree di invalidità o malfunzionamento: funzioni cognitive (disturbi del pensiero), funzioni affettive (dolore o disagio emozionale) o funzioni comportamentali (inadeguatezza del comportamento). Bara (1996), considera la psicoterapia un’integrazione di cognizioni ed emozioni, rivolta all’obbiettivo di raggiungere e mantenere un consapevole equilibrio dinamico, e ottenuta grazie alla relazione tra terapeuta e paziente.

Al di là di ogni definizione, la psicoterapia implica un cambiamento, che può avvenire sia a livello del vissuto interno del paziente, quindi della sfera cognitiva (pensieri, credenze, ricordi), e della sfera emotiva (affetti ed emozioni), sia per quanto riguarda l’agire nel mondo, quindi presuppone anche una modificazione del comportamento osservabile. La funzione del terapeuta è quella di strumento in grado di attivare il paziente, in modo tale che sia lui ad agire in prima persona. Lo scopo della psicoterapia è, dunque, di alleviare, attraverso la relazione terapeutica, le difficoltà del paziente, aiutandolo a comprendere la causa del proprio disagio e a trovare nuove soluzioni per risolverlo.

Freud definì la psicoterapia “la più antica terapia di cui la medicina si sia servita”, mettendo in evidenza come la tecnica da lui utilizzata, la tecnica analitica, potesse essere adottata anche da non-medici, con una buona preparazione psicologica. Il problema della competenza, della formazione e del sapere necessari all’esercizio della professione di psicoterapeuta è sfociato nella necessità di dare un ordinamento giuridico a tale ruolo professionale. E’ nata una legge in Italia, la legge n° 56/89, che stabilisce l’esistenza di un albo degli psicoterapeuti, in cui entrano a far parte coloro che sono in possesso della laurea in psicologia o in medicina e del diploma di una scuola di specializzazione post-lauream, della durata di almeno quattro anni e riconosciuta dallo Stato.

Le tecniche e le scuole di psicoterapia sono molto numerose, tanto che lo scenario scientifico e culturale è assai fertile ed eterogeneo e numerosi sono i criteri di classificazione che si possono adottare. L’esistenza di varie forme di psicoterapia ha fatto sorgere la necessità di documentare i risultati delle psicoterapie stesse, e sono stati perciò condotti molti studi di valutazione, con l’obbiettivo di dimostrare che le psicoterapie producono significativi benefici nei pazienti trattati. Si tratta per lo più di rassegne, date le difficoltà metodologiche a compiere analisi statistiche, da cui emergono risultati interessanti che evidenziano l’efficacia della psicoterapia, in senso generico, rispetto all’assenza di trattamento. Un primo lavoro di Meltzoff e Kornreich (1970), su 101 lavori controllati relativi a svariate forme di psicoterapia, riferisce che l’80% degli studi presi in considerazione riportava risultati favorevoli ed il 20% negativi o nulli. Analoghi risultati vengono ottenuti da uno studio più modesto di Bergin (1971) e da un lavoro su 91 studi di Luborsky e coll. (1975). Una rassegna su 600 studi controllati di Smith e coll. (1980) ha portato alla conclusione che la psicoterapia è un procedimento che determina delle modificazioni positive nei pazienti trattati. Per quanto riguarda i disturbi affettivi, l’associazione tra psicoterapia e farmacoterapia sembra produrre i risultati migliori. La terapia farmacologica determina risultati più rapidi, producendo una più veloce remissione sintomatica, ma la psicoterapia ha maggiore efficacia sul funzionamento sociale ed occupazionale e determina minori ricadute rispetto al solo trattamento farmacologico (Beck et al., 1985). Per quanto riguarda invece i disturbi schizofrenici, le valutazioni scientifiche hanno evidenziato che la psicoterapia individuale non apporta benefici significativi ai pazienti trattati, e in ogni caso tali benefici sono inferiori a quelli ottenuti con la farmacoterapia.

In ambito clinico, non si dispone ancora di strumenti di valutazione efficaci ed utilizzabili diffusamente e la metodologia di questo tipo di studi è molto complessa, ciononostante le valutazioni scientifiche fino ad oggi condotte portano ad affermare che la psicoterapia, senza entrare nel merito delle varie modalità di trattamento, conduce a cambiamenti funzionali positivi che superano in modo significativo quelli che possono ascriversi al semplice trascorrere del tempo.

Il termine psicoterapia viene spesso usato in modo intercambiabile con il termine counselling, sebbene in letteratura vi siano opinioni opposte al riguardo: mentre per alcuni autori (Mucchielli, 1987; D’Ardenne e Mahtani, 1993) vi è una sovrapposizione tra counselling e psicoterapia, per altri la differenza riguarda gli obbiettivi che si prefiggono, i contenuti dell’intervento, la durata, le metodologie, nonchè le strategie adottate per raggiungere gli obiettivi prefissati. Possiamo definire il counselling un processo relazionale di tipo professionale che coinvolge un counsellor e una persona che sente il bisogno di essere aiutata a risolvere un problema e a prendere una decisione; l’intervento si fonda sull’ascolto, il supporto e su principi peculiari ed è caratterizzato dall’utilizzo da parte del counsellor di qualità personali, di conoscenze specifiche, di abilità e strategie comunicative e relazionali finalizzate all’attivazione e alla riorganizzazione delle risorse personali dell’individuo, al fine di rendere possibili scelte e cambiamenti in situazioni percepite come difficili dalla persona stessa, nel pieno rispetto dei suoi valori.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definisce il counselling un processo che, attraverso il dialogo e l’interazione, aiuta le persone a risolvere e a gestire problemi e a prendere decisioni; esso coinvolge un “cliente” e un “counsellor”: il primo è un soggetto che sente il bisogno di essere aiutato, il secondo è una persona esperta, imparziale, non legata al cliente, addestrata all’ascolto, al supporto e alla guida. La differenza dunque tra psicoterapia e counselling è presente solo in termini quantitativi: mentre il counselling è di durata breve, in quanto non si protrae generalmente oltre le cinque sedute, la psicoterapia ha carattere di processo, comprende numerose sedute e può durare anni; diversa è anche la quantità di tempo dedicata alle sedute. Il counselling è solitamente centrato sul problema, che deve essere lieve o moderato e insorto di recente (meno di un anno) (Casolari, 2001), mentre la psicoterapia è centrata sulla persona; il counselling prevede l’offerta di informazioni, consigli e prescrizioni da parte di una persona esperta in un settore specifico del comportamento umano (ad es. settore matrimoniale, educativo), mentre la psicoterapia consiste in un percorso che permette alle persone di capire quali sono i motivi che le portano a pensare, a sentirsi e a comportarsi in maniera insoddisfacente e le aiuta ad attuare dei cambiamenti. Nel counselling si forniscono dei consigli sul modo di comportarsi, in base alle informazioni di cui il counsellor è in possesso o in base ai risultati psicodiagnostici. E’ poi il paziente o il cliente che decide se accettare o meno il consiglio che gli viene dato. La psicoterapia è invece un processo, che presuppone un cambiamento cognitivo, emotivo e comportamentale.

La qualità del counselling, la si ritrova nella terapia di sostegno, più difficile da delineare, il nome stesso, infatti, contiene in sè una contraddizione; se la psicoterapia presuppone un cambiamento, il termine “terapia di sostegno” pone l’accento su una situazione di mantenimento dello stato problematico. Alcuni autori sottolineano l’aspetto contenitivo, di supporto della terapia di sostegno, individuando come punti essenziali di questa forma d’intervento psicologico la capacità di ascolto e chiarificazione.

Reda (1985) sostiene che la terapia di sostegno dovrebbe consistere nel garantire l’ascolto del paziente anche su temi che vanno al di là del compito tecnico del terapeuta, nel fornire, ove possibile, spiegazioni che eventualmente il paziente richieda, nel fornire consigli che seguano il così detto “buon senso comune”. Altri autori ritengono invece che la terapia di sostegno venga attuata esclusivamente in una situazione di crisi e di emergenza, in cui è richiesto un intervento immediato. La sua funzione quindi è di aiutare la persona a superare un momento di crisi, mettendola in condizione di ritrovare le sue competenze, che si suppone non siano danneggiate dalla situazione. Le condizioni della terapia di sostegno sono dunque fattori scatenanti esterni all’individuo (es. un lutto, un fallimento lavorativo), che determinano una situazione di emergenza psicologica, e fattori soggettivi, che ostacolano l’avvio di un trattamento psicologico completo, ma che allo stesso tempo consentono la conservazione di “parti sane” con cui lavorare. Il ruolo del terapeuta è in questo caso quello di guida, in grado di fornire alla persona una base sicura per un cambiamento più radicale (Chiari, 1984).

Dopo aver dunque operato una distinzione tra psicoterapia, counselling e terapia di sostegno, cercheremo di dare una visione dei tipi di psicoterapia più diffusi e più conosciuti. Non esiste un approccio psicoterapico migliore di un altro ma, come sostiene Festa (1988), il “fattore di distinzione” è dato dalla personalità del terapeuta, dalla sua “coscienziosa preparazione professionale” e dal suo “senso di responsabilità”. Uno stesso disturbo può essere trattato con tecniche differenti, in quanto i sintomi psichici sono intrinsecamente polivalenti e si prestano ad essere messi a fuoco da prospettive diverse, ognuna delle quali ha le sue ragioni, i suoi argomenti e la sua efficacia (Civita, 2000).

Le psicoterapie di cui si tratterà ora sono l’approccio psicodinamico, la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia sistemico-familiare e la terapia transazionale.

Psicoterapia Dinamica

La psicoterapia dinamica si è modellata sui principi tecnici della psicoanalisi classica, per alcuni autori si tratta addirittura di una psicoanalisi modificata (Pani, 1983), e si basa su una spiegazione dei fenomeni mentali come risultanti da un conflitto. Tale conflitto deriva da potenti forze inconsce (pulsioni) che cercano di esprimersi e che richiedono un costante controllo da parte di forze opposte che ne impediscono l’espressione. Il sintomo viene spiegato come la riproduzione di questo conflitto.

La psicoterapia dinamica si basa sull’analisi delle difese, definite come mezzi inconsci utilizzati per eliminare l’ansia, e sul portare a livello cosciente il materiale dinamicamente rimosso nell’inconscio, attraverso la relazione terapeutica, che avviene in un’atmosfera di comprensione e di fiducia. Il terapeuta può intervenire in vari modi sul materiale presentato dal paziente (confronto, chiarificazione, conferma, ecc.), uno di essi, molto importante, è l’interpretazione, che serve a rendere esplicito ciò che è incomprensibile o sottinteso (Storr, 1979) o a sottolineare le connessioni immediatamente palesi tra eventi, sintomi e aspetti della personalità del paziente (Pani, 1989). Come regola generale, il terapeuta non menziona contenuti inconsci per mezzo dell’interpretazione fino a quando il materiale non sia quasi cosciente e pertanto relativamente accessibile alla consapevolezza del paziente. Il prodotto dell’interpretazione è l’insight, ossia l’accesso da parte del paziente a una conoscenza che fino a quel momento non era tale. Questa nuova presa di coscienza permette al paziente di padroneggiare i propri sentimenti e i propri pensieri, tanto da poter affrontare la realtà esterna e i rapporto interpersonali con un’ottica più flessibile rispetto al passato. L’insight e la relazione con il terapeuta operano in sinergia per il cambiamento terapeutico.

In psicoterapia dinamica le sedute avvengono vis a vis, generalmente da una a tre volte la settimana, per una durata a seduta di 45-50 minuti. La relazione del paziente con il terapeuta è un misto di relazione transferale e di relazione reale; quest’ultima è definita alleanza terapeutica e viene favorita mediante un’identificazione positiva da parte del paziente con il terapeuta (Greenson, 1984). Un concetto basilare in psicoanalisi, e che si ritrova nella psicoterapia dinamica, è il concetto di transfert, che consiste nel rivivere nel presente (situazione terapeutica) emozioni e conflitti appartenenti al passato. Esso può essere interpretato o meno, a seconda che la terapia sia di tipo espressivo, quale è la psicoanalisi, o di tipo supportivo; nelle terapie primariamente di sostegno il transfert ed il controtransfert (reazione del terapeuta al transfert) sono costantemente monitorati dal terapeuta, ma il transfert non viene verbalizzato nè interpretato (Gabbard, 1994). La psicoterapia dinamica ha una durata inferiore rispetto alla psicoanalisi e si conclude quando il paziente ha raggiunto una certa stabilità nel suo funzionamento, non presenta più sintomi, ed è in grado di riconoscere e analizzare i conflitti autonomamente. La data di conclusione della terapia viene decisa insieme da terapeuta e paziente e solitamente ci si avvicina ad essa in modo graduale, diminuendo progressivamente la frequenza delle sedute.

Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale si rivolge ai problemi attuali, privilegia il presente, ciò che è specifico e concreto. Si basa sull’assunto che sentimenti e comportamenti disfunzionali siano dovuti all’utilizzo di schemi cognitivi (regole specifiche che governano l’elaborazione delle informazioni e il comportamento) disadattativi che regolano in modo patogeno l’elaborazione dell’informazione, portando a produrre idee pregiudiziale e a compiere errori cognitivi, in determinate situazioni. Gli schemi vengono espressi sotto forma di convinzioni e credenze e vengono trattati in terapia come ipotesi da sottoporre a verifica, con lo scopo di correggere la pervasività e l’assolutismo delle credenze negative. Lo scopo della terapia è dunque di correggere l’elaborazione disfunzionale delle informazioni e di modificare gli assunti che mantengono i comportamenti e le emozioni non adattive. Essa si rivolge innanzitutto al sintomo per un immediato sollievo, ma la meta principale è l’eliminazione delle distorsioni cognitive della persona. Il lavoro avviene su un duplice piano: la struttura del sintomo (problemi manifesti) e lo schema sottostante (strutture dedotte), al fine di ottenere un cambiamento sia a livello del vissuto interno del paziente sia a livello del suo comportamento osservabile.

La terapia cognitivo comportamentale si svolge in un periodo limitato di tempo, solitamente non più di 20-25 sedute, della durata di 45 minuti, a intervalli settimanali. Essendo una terapia “breve” richiede al paziente un impegno extra-seduta e del lavoro programmato tra seduta e seduta. I compiti a casa sono parte integrante della terapia, e all’analisi di tali compiti viene dedicata una parte della seduta. Il terapeuta ha un ruolo di supervisore, in quanto aiuta la persona a capire come le proprie credenze e i propri atteggiamenti influenzino lo stato emotivo e il comportamento; la dipendenza è scoraggiata e, man mano che la terapia progredisce, al paziente è richiesto un ruolo sempre più attivo, propositivo e autonomo e gli vengono insegnate tecniche cognitive e comportamentali specifiche. Un principio fondamentale di questa terapia è l’accordo tra paziente e terapeuta sulle mete da raggiungere e la collaborazione reciproca per il loro raggiungimento. La definizione del problema avviene dalla prima seduta, durante la quale si presenta la terapia al paziente, gli si chiede quali siano le sue aspettative e si raccolgono informazioni sulla sua storia. La maggior parte degli interventi del terapeuta hanno la forma di domande, attraverso le quali egli cerca di identificare i pensieri automatici del paziente e gli schemi sottostanti, di aiutare il paziente a prendere una distanza critica da tali pensieri e di valutare con lui possibili alternative.

La terapia cognitivo comportamentale consiste dunque in un costante apprendimento da parte del paziente, cui viene insegnato a mettere in relazione pensieri, affetti e comportamento, a monitorare e ad esaminare i pensieri automatici negativi e a sostituirli con interpretazioni più orientate alla realtà, ad imparare a identificare e modificare le credenze predispongono a distorcere le proprie esperienze (Beck, Rush e al.,1979). Ciò viene fatto attraverso l’insegnamento di tecniche cognitive, ad es. la decatastrofizzazione o tecnica del “cosa succederebbe se”, che aiuta i pazienti a prepararsi a fronteggiare un’eventuale situazione temuta, o la riattribuzione, mediante la quale vengono analizzati i pensieri automatici e vengono ricercate cause alternative agli eventi. Le tecniche comportamentali sono utilizzate per attaccare credenze non adattive (es. verifica di ipotesi), promuovere nuovi apprendimenti, aumentare le potenzialità di risposta dei pazienti (es. allenamento delle abilità), per rilassarsi (es. rilassamento progressivo), per rendere attivi (es. programmazione delle attività), per preparare i pazienti a situazioni evitate (es. prove recitate di comportamenti), per esporli a stimoli temuti (es. terapia di esposizione).

Psicoterapia sistemico-familiare

La terapia sistemico-familiare nasce attorno agli anni ’50 in America; è caratterizzata dal prevalere di una tendenza volta al superamento della settorializzazione degli studi e al recupero di un approccio complessivo ai problemi; trae spinta alla diffusione dall’insoddisfazione rispetto ai risultati che si ottenevano nelle terapie individuali. Lo sviluppo di nuove discipline, come l’antropologia e la sociologia, dà un contributo significativo alla conoscenza dei contesti in cui l’individuo vive, in particolare allo studio delle influenze che le relazioni e l’organizzazione familiare sembrano giocare sullo sviluppo della personalità (Telfener, 1991).

Con i concetti di sistema, organizzazione, causalità circolarità ed equifinalità viene sottolineata la necessità di considerare ogni fenomeno nella prospettiva della globalità e l’impossibilità di considerarlo come somma delle parti, scomponibili e analizzabili in termini di causa-effetto. L’attenzione si sposta inoltre dai fattori intrapsichici ai fenomeni interpersonali e ai contesti in cui hanno luogo. All’interno del sistema, e quindi della famiglia, assume particolare interesse l’analisi degli aspetti comunicativi, presenti in ogni evento o azione, incluso il comportamento sintomatico che viene osservato usando la bussola degli assiomi della comunicazione. I sintomi appaiono sempre di più come un segnale di disagio relazionale dell’intera famiglia, che sembra comunicare in questo modo l’esistenza di un conflitto tra continuità e cambiamento, tra legami di appartenenza e bisogni di individuazione dei suoi singoli componenti (Andolfi, 1994). La famiglia, infatti, è vista come un sistema in continua evoluzione, in cui la presenza di eventi chiave, come ad esempio la morte di un genitore, richiedono una riorganizzazione, che non sempre può essere funzionale e riportare all’equilibrio precedente.

Su questi presupposti si sviluppa un movimento che si struttura attorno ad alcuni principi comuni:

  • la famiglia viene considerata “come se fosse” un sistema;
  • ogni comportamento viene letto e compreso come funzione della relazione;
  • viene abbandonata una concezione del sintomo come anomalia individuale e viene coniato il termine “paziente designato”, il portatore del sintomo, che esprime, anche a nome degli altri membri del sistema, le difficoltà legate alla crescita e all’evoluzione;
  • viene definito come obiettivo della terapia non più il solo cambiamento del singolo, ma la modificazione dei modelli di relazione tra gli individui (Andolfi, 1994).

In altri termini, le persone sono il prodotto delle loro connessioni sociali e possono essere aiutate tenendo conto delle relazioni familiari. I sintomi che un individuo presenta non sono isolati, ma nascono all’interno di questo sistema di relazioni e sono da esso mantenuti. Il focus attenzionale del terapeuta è rivolto ai sottosistemi, alle coalizioni, alle alleanze, alle regole, che possono essere più o meno flessibili, ai confini, che possono essere più o meno permeabili al mondo esterno. Ogni famiglia possiede un proprio linguaggio e un proprio codice che delimitano uno spazio non sempre facilmente accessibile dall’esterno. Se all’inizio si considerava la famiglia come oggetto privilegiato di conoscenza, il campo di osservazione e di intervento è divenuto oggi più complesso. La teoria sottostante all’intervento terapeutico si è via via arricchita di nuove esperienze e delle conoscenze provenienti dalle altre scienze; la rivoluzione cognitiva, la complessità, la cibernetica di second’ordine, il costruttivismo, il costruzionismo sociale, la narrativa.

L’ottica attuale non considera l’individuo o la famiglia come oggetto di conoscenza a priori, ma privilegia l’interazione tra terapeuta e individuo o tra terapeuta e famiglia, il dominio consensuale che creano assieme. Se prima l’osservazione privilegiata era la struttura e l’organizzazione della famiglia, attualmente si nota un’attenzione ravvicinata ai significati che gli individui che interagiscono offrono agli eventi. E’ diventato importante capire come i componenti della famiglia organizzino la vita attorno a significati specifici e come facciano a sopravvivere o meno i significati, i valori, le spiegazioni che mantengono il comportamento, e quindi il sintomo (Telfener, 1991). La contrapposizione tra famiglia e individuo appare superata. Cade la distinzione tra terapia familiare, individuale e di coppia, in quanto non è più coerente con la teoria. Il mondo non viene più suddiviso in sistemi, sottosistemi e sovrasistemi. L’attenzione maggiore all’individuo non implica un ritorno all’intrapsichico, ma alla complessità dei differenti livelli di analisi: biologico, intersoggettivo, sociale, relazionale.

La psicoterapia sistemico-relazionale non si rivolge necessariamente all’intera famiglia, i terapeuti sistemici diventano meno rigidi. Alcuni vedono nel tempo sottosistemi diversi e quindi vedono una o più persone nei diversi incontri, altri propongono un ingaggio terapeutico a più sottosistemi contemporaneamente, altri decidono di incontrare solo una singola persona, altri ancora scelgono di momento in momento, rinunciando a delimitare la terapia come “individuale”, “di coppia”, o “familiare”. L’ottica sistemica sempre più assume la corretta funzione di cornice interpretativa che favorisce l’impiego di tecniche molto varie. Dagli anni novanta si è posto sempre più interesse alla terapia sistemica individuale. In Italia si è sviluppato un dibattito interessante sulla definizione di nuove modalità di incontro, o sulle specifiche tecniche di intervento (Telfener, 1991; Boscolo e al., 1996, ecc.). La rivoluzione epistemologica ha permesso di recuperare il soggetto, di spostare l’attenzione dai membri in terapia al rapporto terapeutico, di lavorar a livello di significati. La visione sistemica, i suoi metodi e le sue tecniche sono oggi applicati anche all’interno della terapia individuale sistemica.

Psicoterapia transazionale

La terapia transazionale è una corrente neo-psicoanalitica che trae le sue origini dalla scuola psicoanalitica della psicologia dell’Io. Il caposcuola è Eric Berne. Si tratta di una psicoterapia principalmente di gruppo, spesso applicata come terapia individuale e di coppia e rivolta preferibilmente a adulti.

La filosofia di base dell’analisi transazionale è che ogni persona, indipendentemente dal proprio comportamento, ha un nucleo di fondo degno di essere amato e ha la potenzialità e il desiderio di crescita e di autorealizzazione (Woollams e Brown, 1998). Secondo la terapia transazionale vi è negli esseri umani la tendenza a rivolgere l’attenzione solo a quelle parti di sè ritenute degne, mentre le parti che non piacciono vengono ignorate o represse e tolgono in questo modo molta energia. Le persone imparano comportamenti specifici e decidono un piano di vita fin dall’infanzia, tale piano può essere mantenuto o modificato in qualsiasi momento e sono le persone stesse che decidono di cambiare e di crescere.

Nell’analisi transazionale il disagio di una persona è dovuto al fatto che segue i dettami e i piani di un “copione esistenziale” auto ed eterodistruttivo. La “guarigione” è possibile quando il cliente, come viene chiamato in questa forma di terapia, riesce ad attuare un “contratto d’autonomia”, ossia rinuncia ad un “copione” predeterminato e assume uno stile di vita che includa scelte di spontaneità, creatività e intimità (Moiso e Novellino, 1988). L’area di intervento della terapia viene analizzata e determinata dal terapeuta insieme al cliente e la metodologia consiste nell’attuare un piano terapeutico che porti il cliente al raggiungimento dell’autonomia, ossia la capacità di esercitare opzioni adeguate ad esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni e le proprie idee in sintonia con il mondo circostante. La terapia transazionale passa attraverso vari stadi di cambiamento, ogni stadio deve essere elaborato in modo sufficiente prima di passare al successivo. I primi stadi che la persona affronta sono lo stadio della motivazione, in cui il cliente deve avvertire la necessità di cambiare e deve essere consapevole che è possibile cambiare; lo stadio della consapevolezza, in cui la persona chiarisce a sè stessa di cosa non è soddisfatta e decide che cosa vuol cambiare; lo stadio del contratto terapeutico, in cui il cliente e terapeuta definiscono gli obbiettivi e le regole del loro rapporto. Il quarto stadio consiste nel “liberare dalla confusione il Bambino” (Woollams e Brown, 1998) e può aver luogo in un unico lavoro o continuare per un lungo periodo di tempo. Il Bambino è uno dei tre Stati dell’Io che una persona ha, insieme agli Stati dell’Adulto e del Genitore. Per Stati dell’Io si intende un sistema coerente di sensazioni, stati d’animo, pensieri e vissuti, correlato ad un insieme coerente di modelli comportamentali. L’obbiettivo di questa quarta fase è di aiutare la persona a entrare in contatto con i propri bisogni e sentimenti insoddisfatti, ad esprimerli, e a sviluppare un senso interiore di sicurezza sufficiente per fare una ridecisione, che è il punto centrale dello stadio cinque e avviene quando la persona cambia qualche aspetto del proprio comportamento o copione. Le ultime due fasi sono il riapprendimento, in cui la persona sperimenta i nuovi comportamenti derivanti dal processo di ridecisione e la fase di conclusione della terapia, in cui la terapia volge al termine, in modo conclusivo o per un periodo di tempo. La durata media di un intervento è di tre anni e la decisione di terminare la terapia viene presa sempre dal cliente, non dal terapeuta.

Fattori specifici e aspecifici in psicoterapia

La psicoterapia è un processo complesso in cui intervengono numerosi fattori, in interazione tra loro. Alcuni fattori sono noti, altri meno, per cui ci si è posti, e ci si pone tuttora, il problema se il risultato di una psicoterapia sia da attribuirsi alla tecnica specifica utilizzata o sia invece dovuto a quella serie di fattori in qualche modo presente in ogni psicoterapia. I fattori propri di una specifica scuola psicoterapeutica sono definiti “specifici” e comprendono le tecniche e le strategie terapeutiche proprie di una particolare psicoterapia. Ad esempio l’interpretazione o l’analisi del transfert sono fattori specifici delle terapie psicoanalitiche; la desensibilizzazione sistematica e l’addestramento all’assertività sono fattori specifici della terapia comportamentale; l’autosservazione e il problem solving sono fattori specifici della terapia cognitiva ecc.

Oltre ai fattori specifici ci sono in ogni rapporto psicoterapeutico numerosi altri fattori comuni a diverse tecniche di trattamento, definiti fattori aspecifici. Si tratta di concetti e principi generali presenti in tutti gli approcci, e sono ad esempio una relazione interpersonale emotivamente calorosa e basata sulla fiducia, un setting definito, il rituale terapeutico. Come ha evidenziato Semerari (200), i fattori aspecifici sono inerenti fondamentalmente alla qualità della relazione che si instaura tra paziente e terapeuta. Strupp (1995), riferendosi a una delle ricerche più famose in quest’ambito, notò come i terapeuti che, sulla base delle prime impressioni, formulavano diagnosi e prognosi meno severe nei confronti dei propri pazienti, tendevano ad avere nelle proprie comunicazioni un tono più empatico e mantenevano le loro impressioni iniziali invariate nel corso della terapia. Ipotizzò allora che le aspettative del terapeuta funzionino come delle profezie che si autodeterminano e che il risultato finale dipenda molto dalle reciproche aspettative.

L’esito di una psicoterapia è influenzato anche da fattori proprio di ogni singolo paziente, come ad esempio le sue caratteristiche personali, la gravità della sua patologia (Luborsky, 1989), la sua motivazione al cambiamento. Alcuni autori (Marhaba e Armezzani, 1988) definiscono tali fattori personali e interpersonali “prerequisiti”, comuni a tutti gli orientamenti e appartenenti sia al terapeuta (ad es. capacità empatica, accettazione specifica di un determinato paziente, fiducia nella guaribilità del paziente, ecc.), sia al paziente (ad es. intenzione di guarire, fiducia nella possibilità di guarire, fiducia nella persona dello psicoterapeuta, ecc.). Lambert e Bergin (1994) hanno proposto una classificazione dei fattori comuni a diverse forme di psicoterapia, associati nella ricerca a risultati positivi. Tali fattori sono:

  • fattori di supporto, relativi alle condizioni che tendono a stabilire e a rinforzare la relazione terapeutica, ossia rassicurazione, sollievo dalla tensione, identificazione con il terapeuta, perizia del terapeuta, empatia, collaborazione tra paziente e terapeuta, accettazione e rispetto del terapeuta nei confronti del paziente e fiducia del paziente verso il terapeuta;
  • fattori di apprendimento, relativi ai cambiamenti di convinzioni e atteggiamenti: consigli, cambiamento delle aspettative nei confronti della propria efficacia personale, autoesplorazione, insight, feedback del terapeuta e logica della spiegazione del problema e dei meccanismi di cambiamento.
  • fattori di azione, che comportano cambiamenti di comportamento: il terapeuta incoraggia il paziente ad affrontare le proprie paure, a sottoporre a verifica la realtà, ad assumere rischi, ad adottare comportamenti diversi nelle relazioni interpersonali, allo scopo di ottenere una regolazione del proprio comportamento e una padronanza cognitiva.

Da una rassegna di cinquanta pubblicazioni in cui sono stati riscontrati diversi tratti comuni tra i fattori terapeutici (Greencavage e Norcross, 1990), i più rilevanti sono risultati essere: l’alleanza terapeutica (56% degli autori), la possibilità di catarsi (38%), l’acquisizione e la pratica di nuovi comportamenti (32%). Sono risultate inoltre importanti le aspettative del paziente (26%), le qualità del psicoterapeuta (24%) e il fornire una logica per il processo di cambiamento (24%). La presenza in psicoterapia di fattori aspecifici permette di spiegare da un lato i miglioramenti o le guarigioni senza psicoterapia, dall’altro il fatto che si ottengono miglioramenti o guarigioni mediante trattamenti psicoterapici di tipo completamente diverso.

Alleanza terapeutica

Al di là della tecnica adottata, in ogni psicoterapia è necessaria la collaborazione del paziente. Tale collaborazione può essere limitata ad aspetti fondamentali del setting, quali il venire regolarmente e in orario alle sedute, dire la verità, riferire sogni e libere associazioni, svolgere i compiti a casa di autosservazione. In quest’ottica non è tanto la relazione in sè ad essere terapeutica, ma una buona relazione costituisce un prerequisito per un’efficace applicazione della tecnica. Inoltre attraverso la relazione con il terapeuta il paziente può divenire consapevole della natura dei propri schemi disadattativi e prendere da essi una distanza critica, in quanto le condizioni interpersonali di sicurezza e conforto favoriscono la possibilità di padronanza cognitiva cosciente e i livelli di consapevolezza del paziente. Le condizioni di fiducia reciproca permettono al paziente di entrare in contatto, durante la seduta, con le sue modalità caratteristiche di interazione (Bara, 1994).

Esperienza interpersonali positive, senso di sicurezza percepito nella relazione terapeutica, interventi accurati e convincenti, sono tutti fattori che motivano il paziente a impegnarsi nel lavoro terapeutico, e contemporaneamente gli forniscono informazioni sul modo di vedere del terapeuta. Progressivamente il paziente si identifica con il terapeuta e utilizza il suo punto di vista per compensare funzioni deficitarie. Il terapeuta, in ogni seduta, prova stati emotivi, produce fantasie e pensieri automatici nei confronti di un determinato paziente. Questo perchè percepisce stimoli sottosoglia relativi a stati emotivi che il paziente inibisce e li elabora inconsciamente. Il prodotto finale di tale elaborazione si concretizza nell’atteggiamento interpersonale verso il paziente. Il terapeuta, osservando i propri stati emotivi, può rendersi conto di emozioni che il paziente inibisce e che esprime attraverso indici non verbali. L’inibizione delle emozioni da parte del paziente avviene perchè egli teme un fallimento personale, timore legato a specifiche convinzioni relative alle reazioni degli altri. Il compito del terapeuta è quindi quello di rendere cosciente il paziente delle emozioni inibite e delle convinzioni per cui le inibisce e favorire un’esperienza correttiva, permettendogli di esprimere tali emozioni in seduta senza che si verifichino le reazioni temute dell’altro. Progressivamente il paziente diviene sempre più consapevole dei propri stati emotivi e acquisisce la capacità di sperimentare situazioni interpersonali diverse da quelle abituali (Greenberg e Safran, 1987).

La relazione svolgerà però una funzione sociale positiva e il paziente rispetterà le regole del setting e applicherà le tecniche che gli verranno insegnate solo se il terapeuta avrà superato “l’esame” cui il paziente lo sottopone. Non è il solo terapeuta, infatti, che ha il compito di costruire l’alleanza terapeutica, ma anche il paziente valuta se il terapeuta è disposto ad aiutarlo e se è all’altezza del compito. Quindi si può considerare l’alleanza terapeutica come una relazione che vede il paziente in una attiva, continua e intelligente valutazione della condotta del terapeuta. Semerari (1991) sottolinea come il paziente sottopone ripetutamente il terapeuta a test per verificarne l’affidabilità e il grado di sicurezza interpersonale che garantisce; se il terapeuta supera questi test diviene per il paziente una fonte autorevole di informazioni per la costruzione della visione di sè. La qualità della relazione è il fattore aspecifico che più di ogni altro è predittivo dell’esito della terapia.

Aspetti iatrogeni della psicoterapia

La psicoterapia può essere efficace, non efficace o iatrogena, ossia indurre una nuova patologia (Semerari, 2000). Ad esserne colpite sono sia le funzioni cognitive, sia la sfera emotiva, sia il comportamento, per cui si può osservare un particolare quadro clinico caratterizzato da inibizione nelle scelte, anche le più banali, da una sensazione soggettiva di confusione ansiosa, da un sentimento di estraneità a sè stesso e di mancata partecipazione al mondo, da un processo autoriflessivo costante, vago e inconcludente, basato su una profonda sfiducia nelle proprie capacità di giudizio e di decisione (Semerari, 1995; Semerari e Procacci, 1993; Semerari, Nicolò e Carcione, 1996).

Una terapia può essere negativa nel senso che risulta inefficace, per cui il disturbo che aveva spinto il soggetto ad intraprendere la terapia rimane invariato, oppure la terapia può avere effetti collaterali, che consistono per lo più in uno stile specifico, stereotipato di affrontare i problemi e un atteggiamento saccente nei confronti degli altri, dato dall’idea che la psicoterapia comporti il raggiungimento di una sorta di superiorità nei confronti di chi non l’ha praticata (Strupp e coll., 1977). Ma una terapia può anche essere dannosa, nel senso che aggrava il disturbo già esistente, producendo degli effetti di conferma del problema e peggiorando lo stato di sofferenza dell’individuo (effetto paradosso) o determinando l’insorgenza di nuovi disturbi (effetto patogeno).

Bergin (1963; 1967; 1971; 1975; 1980) definisce questo particolare effetto nocivo della terapia un “effetto di deterioramento”, che si presenta in una percentuale non chiaramente definita, ma non irrilevante, di casi trattati in psicoterapia. Il rischio iatrogeno è presente in qualunque approccio terapeutico, come sostengono Semerari e Procacci (1995) “è nelle stesse premesse di una buona terapia che si annida la patologia potenziale”. Gli effetti iatrogeni in psicoterapia sono imputabili tanto a errori dovuti a fattori tecnici quanto a errori dovuti a tratti di personalità del terapeuta. Già Freud nel 1910 aveva rilevato che i disturbi indotti dalla psicoterapia sono attribuibili a un mancato rispetto del setting e a una carente formazione del terapeuta. Bianciardi e Telfener (1995) ritengono che la causa di effetti nocivi in terapia sia da ricercare nella relazione terapeutica, a due livelli: in un primo livello il rischio iatrogeno è che le scelte teoriche e metodologiche del terapeuta lo inducano ad utilizzare un’unica chiave di lettura della storia del paziente, non conferendole le caratteristiche di parzialità, ipotesi e riduttività. Un secondo livello riguarda una confusione logica che il terapeuta può fare tra la realtà oggettiva e le teorie che spiegano e interpretano la realtà, in pratica il rischio è che il terapeuta confonda le proprie teorie con qualcosa di oggettivo e reale. Il terapeuta quindi può considerare ogni sua lettura e ogni suo intervento come veri e giusti, anzichè metterli in discussione all’interno della relazione terapeutica.

Semerari (2000) evidenzia come l’aspetto iatrogeno possa essere determinato dal terapeuta, che per esempio sottolinea la tendenza del paziente a distorcere l’informazione, inducendogli in questo modo un senso di sfiducia in sè stesso e nella propria capacità di giudizio, ma può essere dovuto anche al paziente stesso, che ad esempio distorce le comunicazioni del terapeuta o si forma delle rappresentazioni della mente del terapeuta che non corrispondono alla realtà. Ci sono degli indici che permettono di predire gli effetti sintomatici di un intervento: le emozioni. L’assunto di base è che le emozioni, almeno quelle basiche, possano essere considerate dei regolatori dei processi di transizione da un contesto mentale a un altro (Mancini, Semerari, 1990). Se le emozioni segnalano un cambio di contesto mentale, anche quando il terapeuta cerca di modificare l’assetto mentale del paziente si avrà una certa emozione (Semerari, A., 1995; Semerari, A., Procacci, M., 1995; Semerari, A., Nicolò, G. & Carcione, A., 1996). La qualità o l’intensità della reazione emotiva ad un intervento del terapeuta costituisce un indice che permette di individuare se l’integrazione si muove verso una maggiore complessità, una conferma del problema o una nuova patologia indotta dalla terapia. Il concetto di terapia iatrogena dovrebbe far parte del bagaglio teorico di ogni terapeuta, che deve essere consapevole dei rischi insiti in ogni psicoterapia e deve osservare con attenzione il modo in cui il paziente assimila, ricorda e usa il dialogo terapeutico, in modo da correggere, se necessario, la strategia terapeutica.

Psicoterapia e Farmaci

Il rapporto tra psicoterapia e psicofarmaci è una questione spinosa, indissolubilmente legata ai rapporti tra la professione dello psicoterapeuta e quella del medico, tra il filone psicologico e il filone biologico. A livello superficiale si può giustificare la mancata integrazione tra psicoterapia e psicofarmaci con l’argomentazione che, pur agendo entrambi sui disturbi psichici di un individuo, lo fanno in modo praticamente opposto. La psicoterapia allevia le sofferenze della persona attraverso l’uso del medium verbale, all’interno della relazione paziente-terapeuta, mentre il farmaco, pur avendo lo stesso scopo, agisce a livello biochimico, quasi in modo meccanico, “esterno” al rapporto paziente-medico. In realtà le cose sono più complesse, in quanto la psicoterapia non agisce solo a livello cognitivo, ma produce effetti che si manifestano anche sul fisico, ad esempio con la riduzione di una gastrite o la scomparsa di insonnia, e sul comportamento. Il farmaco a sua volta, mediante modificazioni chimiche dell’organismo, produce modificazioni di parametri psichici quali l’umore, l’attenzione, l’emozione.

Nel 1988 Marhaba e Armezzani hanno svolto un’indagine conoscitiva tra i caposcuola di diversi orientamenti teorici, chiedendo loro, tra le altre cose, quale atteggiamento hanno nei confronti degli psicofarmaci. Ne è emerso un atteggiamento generale di equilibrio, in cui non è presente un rifiuto aprioristico del farmaco, anzi esso viene considerato quasi necessario nell’approccio iniziale a particolari disturbi, quali la schizofrenia, la depressione grave, ma anche la tossicodipendenza o la maniacalità. I farmaci sono ritenuti utili quando l’approccio psicoterapico sostanziale è impossibile (Carloni), “per offrire ai pazienti gravemente disturbarti una porta d’ingresso alla metodologia analitica contrattuale” (Moiso e Novellino), per “contattare persone altrimenti inavvicinabili” (Festa). Sostanzialmente dunque i farmaci sono considerati indispensabili nelle patologie psichiche più gravi, in cui non sempre è possibile la comunicazione con il paziente. I farmaci tuttavia vengono prescritti anche per disturbi “meno gravi”, come l’ansia, la depressione, l’ossessività e, sopratutto in questi casi, le loro caratteristiche di rapidità, prevedibilità e costanza possono renderli preferibili a un intervento psicoterapico, che per contro è più lento, difficile e richiede impegno. Se però i farmaci sono in grado di risolvere velocemente (e temporaneamente) una situazione ad esempio di ansia, tuttavia non sono certo in grado di creare motivazioni, modificare le relazioni interpersonali, far acquisire determinate capacità. Ad esempio un trattamento farmacologico garantisce in oltre l’80% dei casi la mancata comparsa di un attacco di panico (Rovetto, 1996). Tuttavia, se l’attacco di panico ha provocato sintomi di agorafobia, il paziente può non avere più attacchi di panico, ma rifiutarsi comunque di uscire di casa o di affrontare determinate situazioni, in quanto le idee irrazionali alla base dell’attacco di panico e dell’agorafobia rimangono presenti e non possono essere trattate farmacologicamente. Il solo trattamento farmacologico può creare inoltre stati di assuefazione, tolleranza e dipendenza.

Psicoterapia e farmacoterapia dunque non necessariamente si escludono reciprocamente, al contrario la terapia farmacologia può aiutare la psicoterapia, come ad esempio nel caso della schizofrenia o della depressione grave, e a sua volta la psicoterapia può favorire la conduzione di una corretta terapia farmacologica, riducendo i rischi di assuefazione e di dipendenza o aumentando la capacità di seguire fedelmente la cura. La somministrazione stessa del farmaco è un’azione psicologica (Schneider, 1969) che, come altri fattori non farmacologici, quali ad esempio la modalità di somministrazione del farmaco o l’ambito terapeutico in cui essa avviene, incidono sull’effetto farmacologico. Molti studi hanno evidenziato come la combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia porti a risultati migliori rispetto all’utilizzo di una sola modalità (Smith et al., 1980; Luborsky, 1984) perchè tendono a sommare i loro effetti pur agendo su punti differenti (Karasu, 1982). Altri sottolineano invece come farmacoterapia e psicoterapia siano due “canali complementari” (Van Praag, 1979) e i farmaci possano portare un grande aiuto al trattamento complessivo del paziente solo se c’è una chiara indicazione al loro uso (Luborsky, 1984).

Per risolvere il problema dell’integrazione è necessaria una maggiore preparazione psicologica in ambito medico e una maggiore informazione farmacologica in ambito psicologico, in modo che, come sostiene Chiari nella già citata ricerca di Armezzani e Marhaba (1988), sia il medico sia lo psicologo siano “quanto meno a conoscenza delle possibilità offerte dall’una e dall’altra disciplina”.

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 Dott.ssa Roberta Marangoni – Psicologa Psicoterapeuta e Antonello Grossi

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