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IL CARICO EMOTIVO DI CHI ASSISTE

Il caregiver è colui, più frequentemente colei, che “fornisce cure”, ossia accudisce chi ha subìto una diminuzione o perdita di autonomia, come accade nella demenza.

L’assistenza, che è quotidiana e occupa gran parte delle giornate, ha un suo “peso” percepito dal caregiver, che si traduce in un disagio psicologico caratterizzato da ansia, depressione e malessere fisico e in un carico soggettivo che investe gli aspetti sociali ed economici dell’assistenza. Si tratta di un concetto multidimensionale che si ripercuote in modo globale sulla qualità della vita delle persone che si occupano di un anziano.

Prendersi cura di un anziano con demenza è dunque un’attività difficile e destabilizzante.

E’ importante parlarne e capire come affrontarla, affinché chi assiste una persona malata non diventi essa stessa un malato.

L’Aussl 5 organizza un corso formativo rivolto ai caregiver di persone che soffrono di Alzheimer, il 6 novembre parlerò del carico emotivo di chi assiste.

CHRISTMAS BLUES OVVERO “QUANDO PASSANO QUESTE FESTE”?

Tempo di feste natalizie, tempo di gioia e serenità……forse. In realtà questo periodo di festeggiamenti è vissuto da molte persone con grande stress: c’è la corsa ai regali (e magari qualche difficoltà economica); ci sono riunioni familiari dove possono essere presenti parenti che non si ha piacere di vedere oppure c’è l’assenza, enorme, di una persona importantissima (un genitore, un nonno); a fine anno si fa un bilancio dell’anno trascorso e, se è stato negativo, l’insoddisfazione si avverte in maniera più vivida proprio in questo periodo.

Ed ecco che ansia, tristezza, malinconia, anedonia fanno capolino e vengono vissuti come emozioni non in sintonia con il clima di festa e di gioia che ci circonda. Questo stato d’animo, oggetto di studio di alcune ricerche, viene definito “Christmas blues” o depressione natalizia e comporta il desiderio che la befana arrivi in fretta e porti via con sé tutte le feste.

In attesa della befana qualcosa nel frattempo si può fare per ridurre il malessere, in primis accettare le proprie emozioni e parlarne, se possibile, con una persona fidata; al contrario sforzarsi di apparire gioiosi quando non lo si è aumenta il livello di stress.

Si può dire qualche no a quegli eventi sociali in cui si sa che si incontreranno persone non gradite, dando invece maggior spazio alle riunioni familiari o amicali che fanno piacere.

Per allentare lo stress delle “mille cose da fare” è utile organizzarsi, preferibilmente con un po’ di anticipo e stabilire budget per gli acquisti.

Utile anche mantenere una certa routine, che serve a mantenere un contatto con la realtà quotidiana, senza lasciarsi fagocitare dai ritmi serrati delle feste, che possono acuire il senso di solitudine e di estraneazione tipico del Christmas blues.

Se l’anno trascorso non è stato positivo, rimuginarci su non serve a nulla, se non ad amplificare il malessere e la frustrazione. Più efficace invece vivere il “qui ed ora”, godendo delle persone, delle cose e delle situazioni che ci circondano e di cui non riusciremmo a godere appieno se ci lasciassimo trasportare dai nostri pensieri del passato (ciò che abbiamo perduto) o dalle ansie per il futuro (quel che potrebbe accadere).

E se, passate le feste, il Christmas blues non vi lascia, è il caso di consultare un esperto, che aiuti a comprendere le cause di tale depressione e guidi la messa in atto di efficaci strategie per superarla.

                                                          Articolo scritto da: Roberta Marangoni

                                                     Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense

 

 

IL MALE OSCURO DOPO IL PARTO

Un grave fatto di cronaca reso noto in questi giorni, una giovane madre siciliana che ha ucciso il figlio di tre mesi buttandolo a terra, ha riacceso i riflettori su un disturbo che può comparire dopo il parto: la depressione post partum. Secondo l’O.N.D.A. (Osservatorio Nazionale sulla salute della donna) esso colpisce il 10-16% delle donne durante il primo anno di vita del bambino; può manifestarsi subito dopo il parto, con maggiore frequenza dopo 4-6 mesi dalla nascita.

Sovente dopo il parto si verifica la maternity blues o tristezza post partum, che si risolve spontaneamente entro una settimana; se persiste oltre tale termine, si parla di depressione post partum. I sintomi sono simili ad un disturbo depressivo e non devono mai essere sottovalutati e fraintesi con un normale stato di disagio legato alla stanchezza fisica.

I campanelli di allarme

I sintomi sono disturbi del sonno, disturbo dell’appetito, iperattività motoria o al contrario letargia, faticabilità o mancanza di energia, sensi di colpa, bassa autostima, sentimenti di impotenza e disvalore, ridotta capacità di pensare o concentrarsi, pensieri ricorrenti di morte.

Le cause

Le cause sono molteplici, legate a fattori ormonali, fisici, psicologici, sociali, cognitivi.

Che fare

Le donne che negli anni si sono rivolte a me per una psicoterapia sono state spinte dalla paura di poter fare del male al bambino. E’ importante sottolineare che non c’è una correlazione scientifica tra il disturbo e l’infanticidio, tuttavia la neo mamma che soffre deve essere supportata e aiutata, innanzitutto dal partner e dalla famiglia. La psicoterapia aiuta la donna ad acquisire consapevolezza e responsabilità rispetto al nuovo, delicato ruolo.

 

Articolo scritto da: Roberta Marangoni

Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense

LA PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA: QUELLO CHE PENSI SUCCEDE DAVVERO

Nel 1932 la Last National Bank era una banca solida, ma bastò una voce di insolvenza, che venne accolta dai clienti, per cui la maggior parte di loro, preoccupata per questa voce, si precipitò a ritirare tutti i propri risparmi, provocando di fatto il fallimento della banca.

Venendo ai giorni nostri, nel maggio scorso la fake news sul “piano segreto di uscita dall’euro” provocò un’ondata speculativa sui titoli di Stato, con aumento di spread e spesa per interessi. L’azione di disinformazione aveva obiettivi politici precisi e fece danni collaterali importanti, con aggravio della spesa per interessi di qualche miliardo.

Che cosa è accaduto in questi due esempi? “Una supposizione per il solo fatto di essere stata pronunciata fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità” (R.K. Merton). Questo fenomeno si chiama “profezia che si autoavvera”: l’idea alla base è che un’opinione, pur essendo falsa, per il solo fatto di essere creduta vera porta la persona a comportarsi in un modo che la fa avverare, fa realizzare cioè l’aspettativa.

Ciò avviene perché in generale ognuno di noi cerca di individuare nel mondo solo informazioni che danno conferme, ad es.: lo stereotipo “tutti gli extracomunitari sono delinquenti” viene confermato ogni volta che al telegiornale viene data notizia di qualche crimine commesso da un extracomunitario. Si tratta di un errore di conferma, per cui “vedo solo ciò che mi aspetto di vedere”.

La profezia che si autoavvera non esiste solo in economia, ma anche in relazione a noi stessi e ai nostri pensieri: quando pensiamo o temiamo che avvenga qualcosa di negativo, ci comportiamo in modo che la previsione si realizzi davvero. Ad esempio, se Anna teme di essere considerata antipatica dagli altri, mette in atto comportamenti di chiusura e sottrazione così da risultare realmente sgradevole.

Una notizia positiva è che la profezia funziona anche in senso positivo. Per esempio, in  campagna elettorale i sondaggi sono in grado di influenzare il voto: si dà per vincente o in crescita un partito, questo fatto incoraggia alla preferenza e i voti crescono fino a poter raggiungere la vittoria.

Altro esempio lo possiamo ricavare nel mondo della scuola, dove si parla di “effetto Pigmalione”. Rosenthal nel 1974 effettuò un interessante esperimento all’interno di una scuola elementare: fingendo di avere somministrato un test alla classe, informò le maestre del fatto che i bambini del gruppo “X” erano risultati più predisposti allo studio e più intelligenti rispetto a quelli del gruppo “Y”. Il risultato finale fu che a conclusione dell’anno scolastico i bambini del gruppo X ottennero valutazioni più elevate da parte degli insegnanti e questo portò l’autore a ipotizzare che l’atteggiamento degli insegnanti, influenzato dalle previsioni, avesse condotto alla realizzazione della previsione stessa.

Le profezie che si autoavverano incidono significativamente sulla visione che abbiamo di noi stessi, del nostro modo di apparire con gli altri e con il mondo e questo crea schemi stabili, rigidi, di comportamento, che ovviamente si ripeteranno nel tempo confermando la nostra visione delle cose.

                                                                Articolo scritto da: Roberta Marangoni

                                                         Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense

LA SOFFERENZA EMOTIVA. COSA LA DETERMINA E QUANDO SI MANTIENE

Nella pratica clinica una domanda che spesso i pazienti rivolgono al terapeuta è: “Perché sto così male?”.

Se il disagio emotivo può essere spiegato con la presenza di eventi negativi che le persone prima o poi nella vita sono costrette ad affrontare, la sofferenza patologica non è una conseguenza ineluttabile dell’evento negativo; infatti di fronte allo stesso evento (ad es. un lutto) alcune persone sviluppano disturbi emotivi, mentre altre recuperano il livello di funzionamento precedente.

La sofferenza emotiva indica che una rappresentazione cognitiva è in conflitto con i desideri e gli scopi dell’individuo. Come già affrontato in un precedente articolo (“L’illusione della scelta perfetta”), il nostro comportamento è orientato dai nostri scopi, che costituiscono il nostro sistema motivazionale, attraverso cui operiamo delle valutazioni e, quindi, delle scelte. Quando uno scopo personale rilevante (ad es. “Voglio costruire una famiglia”) è minacciato o compromesso (ad es. il fidanzato ci lascia) si produce sofferenza, che normalmente si risolve raggiungendo, ridefinendo o rinunciando allo scopo compromesso.

Dunque la compromissione di uno scopo produce sofferenza emotiva, ma non sofferenza psicopatologica; la sofferenza diventa patologica se è mantenuta nel tempo o è esagerata nell’intensità.

Che cosa determina questo? La non accettazione di quanto ci accade.

Torniamo ad Anna lasciata dal fidanzato un anno fa… Nonostante sia trascorso del tempo, Anna soffre molto e non riesce a svolgere le sue attività quotidiane, fatica ad andare al lavoro, si chiude in casa e non risponde alle telefonate degli amici, piange spesso. Questo accade perché Anna continua a considerare inaccettabile la perdita del fidanzato e le sue conseguenze (ad es. il fatto di non poter avere un figlio come desidera). Pur soffrendo, non rinuncia al suo scopo di avere il fidanzato e di costruire una famiglia con lui e non attua alcun tentativo efficace di soluzione.

Per cambiare e stare meglio, Anna dovrebbe prendere atto della compromissione del suo scopo, invece che continuare ad investire su di esso (che di fatto non ottiene), accettare l’abbandono e riorganizzarsi, “investendo” in altre direzioni (ad es. investire maggiormente sul lavoro, sulle amicizie, sulle proprie passioni…..). Se Anna non accetta la compromissione del suo scopo, si determina una situazione di iperinvestimento, ossia di insistenza su uno scopo di fatto compromesso o minacciato e la sofferenza patologica si mantiene.

 

                                                                                  Articolo scritto da: Roberta Marangoni

                                                                            Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense

 

 

 

LO FACCIO DOMANI

Se per alcuni l’arte di procrastinare è una condizione saltuaria, per altri  si tratta di un vero e proprio modus vivendi, al limite della patologia, che può creare seri problemi soprattutto in un contesto lavorativo, quando le scadenze incombono. Alcune persone infatti non svolgerebbero mai alcuni compiti, perché danno noia, sono considerati poco interessanti o, al contrario, così rilevanti che si teme di sbagliare affrontandoli… E così si procrastina, si rimanda a domani ciò che potrebbe essere fatto oggi, in un “accumulo di debiti sulla carta di credito emotiva”, processo molto ben definito da Piers Steel, massimo esperto sul tema.

Le conseguenze della procrastinazione non si pagano subito, ma prima o poi vanno saldate. E sono conseguenze che si determinano in vari ambiti: economico, a livello di stress, a livello di disturbi psico-fisici e perdita di opportunità.

Perché si procrastina? I motivi possono essere diversi:

  • Per impulsività: la persona impulsiva si sofferma sui benefici a breve termine, sottovalutando la variabile tempo e perdendo di vista l’obiettivo.
  • Per la ricerca di forti emozioni (“sensation seeking”): è tipica di chi sperimenta facilmente noia e cerca emozioni, date dall’avvicinarsi della data di scadenza senza che si sia fatto nulla.
  • Per desiderio di perfezionismo: il timore del giudizio altrui spinge il procrastinatore a svolgere il compito in modo perfetto.
  • Per scarsa autostima: chi ha poca fiducia nelle proprie possibilità pensa che, pur agendo, non cambierà la propria condizione.
  • Per una modalità passivo-aggressiva: si rimanda il compito per controllare l’altro ed affermare la propria autonomia.

Come si può affrontare la procrastinazione?

Gli interventi più efficaci sono di tipo cognitivo-comportamentale.

A livello comportamentale si può intervenire in vari modi, ad esempio promuovendo una routine, esponendo l’individuo alle attività evitate, per ridurre l’intensità delle emozioni che portano a procrastinare, prescrivendo uno “sforzo minimo” per superare le emozioni che bloccano l’inizio dell’attività, definendo in modo chiaro gli obiettivi e suddividendo gli obiettivi a lungo termine in sotto-obiettivi.

A livello cognitivo si lavora sulle credenze disfunzionali che portano l’individuo a procrastinare, ad es. la visione catastrofica del fallimento, l’idea di dover svolgere il compito alla perfezione, i dubbi sulle proprie capacità, in modo tale che si acquisisca la consapevolezza che alcuni pensieri sono un ostacolo all’adempimento dei propri impegni. Si può affrontare inoltre la discrepanza tra la situazione attuale e gli obiettivi prefissati e riflettere sui costi e sui benefici della procrastinazione, in modo tale da favorire il cambiamento.

                                                                     Articolo scritto da: Roberta Marangoni

                                                                  Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense

                  “Puoi rimandare                                                         

           ma il tempo non lo farà”

               (Benjamin Franklin)

PENSI TROPPO? RIMUGINI? TI PREOCCUPI?

Le persone non subiscono passivamente gli stati emozionali ma vi rispondono attivamente, compiendo notevoli sforzi di regolazione, dunque è la risposta allo stato emotivo, piuttosto che lo stato emotivo in sé, ad essere associata all’insorgenza e al mantenimento dei disturbi emotivi. La regolazione delle emozioni è cruciale per il benessere: se è sana è fondamentale per la salute e il benessere mentale, mentre se è inadeguata caratterizza molte forme di psicopatologia.

La ruminazione rappresenta una delle strategie di regolazione emozionale maggiormente indagate ed è emblematica della stretta connessione tra processi emotivi e cognitivi. Con il termine ruminazione si intende il continuo e ripetitivo interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi e delle proprie difficoltà: ad es. “Perché capita proprio a me?”,  “Perché sono fatto cosi?”,  “Perché sto cosi male?”, “Cosa non va in me?”. Essa può essere utile quando porta alla riflessione, alla pianificazione e risoluzione di un problema, mentre è disadattiva quando la persona rimane bloccata e i pensieri si ripetono senza fine. In quest’ultimo caso si osserva un aumento dello stato emotivo negativo (ansia, umore depresso, rabbia), scoraggiamento, evitamento di attività che prima erano piacevoli, o isolamento dalla vita sociale.

La ruminazione può essere intensa in momenti di vita particolarmente stressanti, per esempio di fronte ad una scelta importante di vita (università, lavoro, esami), durante una crisi sentimentale o dopo la fine di una relazione affettiva, dopo un cambiamento o una perdita sul lavoro, dopo un lutto, a seguito di conflitti relazionali.

Perché si rumina? I ruminatori hanno delle credenze relative all’utilità della ruminazione come strategia di regolazione emotiva  e queste credenze possono a loro volta promuovere la tendenza a ruminare. Tuttavia il pensiero ripetitivo viene spesso vissuto dalla persona come un fenomeno incontrollabile; trattandosi, invece, di uno stile di pensiero appreso è possibile lavorare in terapia al fine di sviluppare strategie per interrompere questa attività mentale. Il primo passaggio consiste nello sviluppare una maggiore consapevolezza del suo funzionamento, in particolare riuscire a riconoscere i segnali di allarme (trigger) che innescano il pensiero ripetitivo, prendere consapevolezza della dannosità di questa attività mentale e apprendere nuove strategie di gestione degli stati emotivi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi e/o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri.

                      Articolo scritto da: Roberta Marangoni

                    Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa forense