Se per alcuni l’arte di procrastinare è una condizione saltuaria, per altri si tratta di un vero e proprio modus vivendi, al limite della patologia, che può creare seri problemi soprattutto in un contesto lavorativo, quando le scadenze incombono. Alcune persone infatti non svolgerebbero mai alcuni compiti, perché danno noia, sono considerati poco interessanti o, al contrario, così rilevanti che si teme di sbagliare affrontandoli… E così si procrastina, si rimanda a domani ciò che potrebbe essere fatto oggi, in un “accumulo di debiti sulla carta di credito emotiva”, processo molto ben definito da Piers Steel, massimo esperto sul tema.
Le conseguenze della procrastinazione non si pagano subito, ma prima o poi vanno saldate. E sono conseguenze che si determinano in vari ambiti: economico, a livello di stress, a livello di disturbi psico-fisici e perdita di opportunità.
Perché si procrastina? I motivi possono essere diversi:
Per impulsività: la persona impulsiva si sofferma sui benefici a breve termine, sottovalutando la variabile tempo e perdendo di vista l’obiettivo.
Per la ricerca di forti emozioni (“sensation seeking”): è tipica di chi sperimenta facilmente noia e cerca emozioni, date dall’avvicinarsi della data di scadenza senza che si sia fatto nulla.
Per desiderio di perfezionismo: il timore del giudizio altrui spinge il procrastinatore a svolgere il compito in modo perfetto.
Per scarsa autostima: chi ha poca fiducia nelle proprie possibilità pensa che, pur agendo, non cambierà la propria condizione.
Per una modalità passivo-aggressiva: si rimanda il compito per controllare l’altro ed affermare la propria autonomia.
Come si può affrontare la procrastinazione?
Gli interventi più efficaci sono di tipo cognitivo-comportamentale.
A livello comportamentale si può intervenire in vari modi, ad esempio promuovendo una routine, esponendo l’individuo alle attività evitate, per ridurre l’intensità delle emozioni che portano a procrastinare, prescrivendo uno “sforzo minimo” per superare le emozioni che bloccano l’inizio dell’attività, definendo in modo chiaro gli obiettivi e suddividendo gli obiettivi a lungo termine in sotto-obiettivi.
A livello cognitivo si lavora sulle credenze disfunzionali che portano l’individuo a procrastinare, ad es. la visione catastrofica del fallimento, l’idea di dover svolgere il compito alla perfezione, i dubbi sulle proprie capacità, in modo tale che si acquisisca la consapevolezza che alcuni pensieri sono un ostacolo all’adempimento dei propri impegni. Si può affrontare inoltre la discrepanza tra la situazione attuale e gli obiettivi prefissati e riflettere sui costi e sui benefici della procrastinazione, in modo tale da favorire il cambiamento.
Le persone non subiscono passivamente gli stati emozionali ma vi rispondono attivamente, compiendo notevoli sforzi di regolazione, dunque è la risposta allo stato emotivo, piuttosto che lo stato emotivo in sé, ad essere associata all’insorgenza e al mantenimento dei disturbi emotivi. La regolazione delle emozioni è cruciale per il benessere: se è sana è fondamentale per la salute e il benessere mentale, mentre se è inadeguata caratterizza molte forme di psicopatologia.
La ruminazione rappresenta una delle strategie di regolazione emozionale maggiormente indagate ed è emblematica della stretta connessione tra processi emotivi e cognitivi. Con il termine ruminazione si intende il continuo e ripetitivo interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi e delle proprie difficoltà: ad es. “Perché capita proprio a me?”, “Perché sono fatto cosi?”, “Perché sto cosi male?”, “Cosa non va in me?”. Essa può essere utile quando porta alla riflessione, alla pianificazione e risoluzione di un problema, mentre è disadattiva quando la persona rimane bloccata e i pensieri si ripetono senza fine. In quest’ultimo caso si osserva un aumento dello stato emotivo negativo (ansia, umore depresso, rabbia), scoraggiamento, evitamento di attività che prima erano piacevoli, o isolamento dalla vita sociale.
La ruminazione può essere intensa in momenti di vita particolarmente stressanti, per esempio di fronte ad una scelta importante di vita (università, lavoro, esami), durante una crisi sentimentale o dopo la fine di una relazione affettiva, dopo un cambiamento o una perdita sul lavoro, dopo un lutto, a seguito di conflitti relazionali.
Perché si rumina? I ruminatori hanno delle credenze relative all’utilità della ruminazione come strategia di regolazione emotiva e queste credenze possono a loro volta promuovere la tendenza a ruminare. Tuttavia il pensiero ripetitivo viene spesso vissuto dalla persona come un fenomeno incontrollabile; trattandosi, invece, di uno stile di pensiero appreso è possibile lavorare in terapia al fine di sviluppare strategie per interrompere questa attività mentale. Il primo passaggio consiste nello sviluppare una maggiore consapevolezza del suo funzionamento, in particolare riuscire a riconoscere i segnali di allarme (trigger) che innescano il pensiero ripetitivo, prendere consapevolezza della dannosità di questa attività mentale e apprendere nuove strategie di gestione degli stati emotivi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi e/o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri.
A tutti è capitato di sperimentare situazioni in cui le nostre credenze non si sono modificate per lungo tempo, nonostante fossero disfunzionali e sperimentassimo l’esperienza di ripetuti fallimenti nell’indirizzare il corso degli eventi. Ecco dunque che la fine di una relazione non viene accettata e si continua a cercare nell’amato/a i segni di un amore che si vorrebbe ancora vivo, oppure si continua a bere e fumare nonostante la paura di ammalarsi.
Perché non si cambia idea?
Noi tendiamo a mantenere quelle convinzioni che consentono di prevedere e controllare il nostro mondo, pertanto non si riesce a cambiare idea se non ce ne sono altre disponibili o migliori, che possano ampliare il nostro panorama conoscitivo e permetterci di dare un senso al nostro mondo.
Ma quali sono i motivi che non permettono di cambiare idea, nonostante essa si sia dimostrata fallimentare?
Un primo ostacolo al cambiamento è dato dalla povertà di sistema, inteso come una mappa non complessa della realtà in cui si vive (ad es. dividere il mondo in buoni e cattivi). Ciò avviene nel deficit cognitivo e nel deterioramento demenziale, ma anche in soggetti che hanno raggiunto un adattamento sociale e lavorativo minimo, che permette loro di muoversi in un ambiente prevedibile e ripetitivo. Tale equilibrio viene mantenuto a patto che non ci siano cambiamenti significativi, che il soggetto non è in grado di fronteggiare.
Un secondo ostacolo che si incontra nel tentativo di cambiare idea è dato dagli automatismi, ossia quelle manifestazioni ripetitive, in termini di comportamento o pensiero, che hanno perso il proprio scopo originario. Ad es. io posso aver iniziato a fumare a 16 anni per essere accettata dal gruppo di amici, trasgredire le regole imposte dai genitori e voler dunque sentirmi grande, ma poi, da adulta, continuo a fumare nonostante siano venute meno le motivazioni originarie. Come esistono dei comportamenti automatici, esistono anche delle credenze apprese precocemente che vengono trattenute dal sistema senza essere mai sottoposte a critica e che il soggetto da per scontate. Alcune di queste credenze sono estremamente radicate in una certa cultura e considerate ovvie, ad es. nella società occidentale si da molta importanza al fare carriera, pertanto un soggetto appartenente a tale cultura può dare per scontato che, per essere felice, deve fare carriera e magari fare tanti soldi.
L’ostacolo maggiore al cambiare idea è dato dall’inerzia al cambiamento delle credenze caratterizzate da un forte riferimento al Sé; ad es. se mi sono sempre considerata una persona buona, avrò difficoltà a riconoscere in me atteggiamenti, pensieri e stati d’animo contrastanti con questa idea e, nel caso si presentassero, li giustificherei. Normalmente andiamo a cercare le prove che ci consentono di mantenere le idee che abbiamo di noi stessi, anche quando sono negative, ed escludiamo o manipoliamo le prove contrarie. Ciò avviene per la nostra necessità di riuscire a controllare e prevedere la realtà, anche se si tratta di una realtà sgradevole. Cambiare una credenza significa cambiare anche tutte quelle ad essa collegate, modificare una credenza centrale implica ristrutturare gran parte del sistema cognitivo e ciò è molto costoso e “rischioso”, perché non si sa dove si va a finire.
Una strategia per raggiungere uno scopo, anche se fallimentare, non è da considerarsi patologica se fa parte di una serie di alternative possibili, mentre è patologica se è fallimentare ed è l’unica che il sistema ha a disposizione. Ad es. molte persone hanno cura del proprio aspetto fisico e della propria salute, ma se l’attenzione al proprio corpo è l’unico modo per avere il controllo di sé, allora si sconfina nei disturbi alimentari o nell’ipocondria. Viene meno dunque la libertà personale e si crea sofferenza del sistema.
Dunque la patologia è data dal blocco di quel processo di cambiamento che dovrebbe attivarsi di fronte al mancato raggiungimento di uno scopo, a causa di una o più credenze che impediscono sia la modifica della strategia di perseguimento dello scopo sia la rinuncia allo scopo stesso. L’essenza della terapia consiste nella rimozione degli ostacoli che impediscono il cambiamento, aumentando i gradi di libertà del sistema.
Sempre più spesso mi capita, nella mia attività clinica, di ricevere richieste di aiuto da parte di persone che hanno difficoltà a compiere delle scelte, qualsiasi sia l’ambito esistenziale in cui tale scelta si collochi. Tale difficoltà li porta a rimanere in stand by per un prolungato periodo di tempo, facendo scadere il tempo massimo per la scelta. C’è anche chi chiede aiuto dopo, rimpiangendo la scelta non fatta.
Come si compiono le scelte?
Il nostro comportamento è orientato dai nostri scopi, che costituiscono il nostro sistema motivazionale, attraverso cui operiamo delle valutazioni e, quindi, delle scelte. Le nostre azioni non sono buone o positive in assoluto, ma in riferimento a degli scopi, ecco perché lo stesso evento è valutato in modo diverso da persone diverse, che hanno scopi diversi. In tutto ciò le emozioni hanno la funzione di tenerci informati sullo stato di successo o fallimento attuale o previsto nel raggiungere i nostri scopi, ad es. l’ansia ci dice che c’è il pericolo che il nostro scopo fallisca, la rabbia comunica che lo scopo è fallito.
Gli scopi che guidano il comportamento umano sono ordinati gerarchicamente in modo tale che taluni siano strumentali, rispetto ad altri più generali e importanti. Es.: Antonio si iscrive in palestra. Perché lo fa? Per rimettersi in forma. Perché vuole rimettersi in forma? Per essere più piacevole. Perché vuole essere più piacevole? Per conquistare Alice. Perché vuole conquistare Alice? Per sentirsi un vero uomo. Perché vuole sentirsi un vero uomo? Giunti a questa domanda Antonio non sa quali altre risposte dare, dirà che non ci sono altri perché. Siamo arrivati ad uno scopo terminale, al vertice di una gerarchia di scopi, detti strumentali, che sono mezzi per raggiungere lo scopo terminale.
Ci sono situazioni in cui per raggiungere lo scopo ci sono diverse strategie di perseguimento, che possono entrare in conflitto tra loro: è la classica situazione della “botte piena e moglie ubriaca”. E’ necessaria una scelta tra due stati desiderati, che sono però incompatibili tra loro e necessariamente uno dei due sarà frustrato e fonte di sofferenza. A tale sofferenza “normale” e utile, perché determina un cambiamento, si può però aggiungere un’altra sofferenza, che si genera quando c’è una credenza del tipo “le cose non dovrebbero essere così”, con conseguente senso di ingiustizia subita e un’emozione di rabbia. Ciò accade perché si tende ad avere un’aspettativa onnipotente sul nostro potere di modificare la realtà, la quale non tiene certo conto dei nostri desideri!
Vediamo di chiarire con un esempio: Marco svolge un lavoro che non gli piace più, ma che gli garantisce un introito economico, che gli permette di mantenere la famiglia. Gli viene proposto di intraprendere una nuova attività, che gli interessa molto, ma che è “da costruire”, senza alcuna certezza di successo e, di conseguenza, senza la sicurezza di un guadagno economico; inoltre la nuova attività richiederebbe numerosi viaggi, con i conseguenti rischi legati agli spostamenti e periodi di tempo lontano dalla famiglia.
Marco mette sul piatto della bilancia l’incertezza del guadagno, la mancanza di esperienza in un settore per lui nuovo, i rischi legati agli spostamenti e sceglie di mantenere il vecchio lavoro, anche se non gli piace più; tuttavia, dopo qualche settimana, si pente della scelta fatta e si autoaccusa di avere sbagliato.
Cosa è successo?
Gli errori di ragionamento
Marco compie alcuni errori di ragionamento:
Mantenendo la sua disponibilità economica, lo scopo di avere un introito economico fisso perde di importanza (pesa meno);
Il fatto di non avere esperienza in un nuovo settore lavorativo non è avvertito, perché egli continua a svolgere ciò che sa ben fare e non ha mai sperimentato la situazione opposta;
Il fatto di non correre il rischio di un incidente negli spostamenti non è avvertito perché l’incidente non si è verificato, così come non è avvertito l’allontanamento dalla famiglia, che Marco continua a vedere quotidianamente.
Ciò che resta evidente è che il proprio lavoro non piace più.
Dunque Marco:
Valuta le proprie abilità di decisore sull’esito effettivo della scelta e non sulla correttezza del processo decisionale. Si tratta dell’errore del “senno di poi”, ossia quando conosciamo l’esito di una vicenda ci sembra che ci fossero già prima gli indizi sufficienti per prevederlo, ma in realtà non è così.
Commette due errori che congiuntamente lo inducono a ritenere di avere sbagliato:
Gli svantaggi temuti che lo avevano indotto a rifiutare l’opzione B (incertezza economica, nessuna esperienza nel nuovo settore lavorativo, rischi legati agli spostamenti) non si sono effettivamente realizzati, per cui non ne avverte più la negatività.
I vantaggi che lo avevano spinto a scegliere l’opzione A (sicurezza economica, esperienza lavorativa, contatto quotidiano con la famiglia), trascorse le prime settimane, vengono considerati acquisiti, scontati, mentre gli eventuali svantaggi (il lavoro non piace) essendo causa di disagio attuale, richiamano costantemente l’attenzione.
Di conseguenza Marco soffre perché:
– ritiene di avere fallito il proprio scopo;
– ritiene un’ingiustizia aver dovuto scegliere e rinunciare;
– si considera un cattivo decisore.
Egli non tiene conto che al momento della scelta non aveva tutti i dati che ha avuto in seguito. Inoltre, una volta effettuata la scelta, non ha più tenuto conto dei criteri che avevano fatto preferire l’opzione A e scartare la B e, dati per acquisiti i vantaggi di A, si è soffermato solo sui suoi difetti.
L’errore di base che Marco fa è ritenere che una delle due opzioni sia perfetta, mentre è semplicemente migliore dell’altra. Una scelta si opera infatti tra due opzioni simili, se una delle due opzioni fosse perfetta non sarebbe neppure necessario compiere una scelta. Il risultato è che, nell’inutile tentativo di fare scelte perfette, gli uomini si macerano nell’indecisione e se la prendono con sé stessi per errori che non hanno commesso!
Fin dai primi anni di vita ci formiamo un concetto su noi stessi sulla base di numerose variabili: le relazioni precoci, le esperienze vissute, la storia di apprendimento, il tipo di educazione ricevuta, ma soprattutto l’immagine che hanno di noi le persone significative (i genitori in primis, gli insegnanti….), che sono per il bambino dei punti di riferimento, che rafforzano o reprimono i suoi comportamenti e i modi di pensare, definendoli e creando il sistema di valori. Ad esempio se un bambino prende un bel voto a scuola e i genitori lo accolgono con un sentito “bravo”, rafforzano il suo impegno e la sua immagine di sé di bambino capace; se i genitori ritengono invece che il bambino ha semplicemente “fatto il suo dovere” e magari poteva anche “fare di più”, sminuiscono il suo impegno e contribuiscono a sviluppare in lui un’immagine negativa di sé. Nel corso di tutta la vita siamo in continua relazione con il nostro ambiente e riceviamo dei messaggi che sono fondamentali per l’immagine che abbiamo di noi stessi e degli altri, in un processo di apprendimento che ci permette di crescere e di svilupparci.
La valutazione che abbiamo di noi stessi nelle relazioni con gli altri è definita autostima ed influenza i pensieri, i comportamenti e lo stile comunicativo e relazionale utilizzato. Avere una buona autostima significa avere una visione realistica di sé, delle proprie qualità e dei propri difetti, senza valutarsi troppo negativamente per i propri punti di debolezza né troppo positivamente per i punti di forza. Se c’è discrepanza tra come ci vediamo (sé reale) e come vorremmo essere (sé ideale) insorgono problemi di autostima. Sulla base della valutazione che diamo a noi stessi, ci relazioniamo con gli altri adottando uno specifico stile comunicativo, che può essere assertivo, aggressivo o passivo; tale stile riguarda sia la comunicazione verbale che non verbale e varia in base ai contesti e alle relazioni, anche se vi è una tendenza a comportarsi prevalentemente in base ad uno stile comportamentale dominante.
Stile comportamentale assertivo
La persona assertiva è in grado di esprimere chiaramente le proprie emozioni ed opinioni, senza prevaricare sull’altro né essere prevaricato. In caso di conflitti interpersonali utilizza lo strumento della negoziazione, mantenendo il rispetto per l’altro e per sé stesso, difendendo i propri interessi ed esprimendo i propri pensieri, avendo ben chiari quali sono, allo stesso tempo, i diritti e i bisogni degli altri.
Stile comportamentale passivo
Chi ha uno stile comportamentale prevalentemente passivo non difende i propri diritti, non esprime le proprie emozioni e i propri pensieri, teme il giudizio altrui, fatica a “dire di no”, ha difficoltà a proporre iniziative e a prendere decisioni, ritiene gli altri siano “migliori” ed ha un’elevata ansia sociale, pertanto tende ad evitare ogni tipo di conflitto, sottomettendosi al volere dell’altro.
Stile comportamentale aggressivo
Chi adotta un comportamento aggressivo tende a soddisfare unicamente i propri bisogni prevaricando gli altri, ritiene di essere sempre nel giusto, attribuendo agli altri la responsabilità dei propri errori, non rispetta le idee e le emozioni altrui, che svaluta. Il suo obiettivo è “averla vinta a tutti i costi!!”.
Il comportamento assertivo non è un compromesso tra quello passivo ed aggressivo, e non è l’unico comportamento possibile per “stare bene”, ma le componenti emozionali, cognitive ed espressive devono essere calibrate a seconda della situazione, delle aspettative, degli obiettivi della persona in quel dato momento. Ad esempio il “silenzio” può essere, a seconda della situazione e del momento, un comportamento passivo (sto in silenzio perché ho paura di dire ciò che penso), aggressivo (sto in silenzio per mettere l’altro in imbarazzo e in difficoltà) o assertivo (sto in silenzio perché non c’è altro da aggiungere).
Ciò che ci permette di distinguere le varie modalità è la possibilità di scelta, il comportamento assertivo infatti è il risultato di un atto intenzionale e ragionato; tale scelta tuttavia non è possibile per tutti, ad esempio chi sperimenta una bassa autostima evita di scegliere e di agire per un eccessivo timore di sbagliare. L’esperienza clinica insegna che sono molte le persone che vivono di doveri, precludendo a sé stesse di sperimentare le proprie emozioni e ostacolando il proprio benessere.
Per adottare una modalità di relazione interpersonale più equilibrata e costruttiva, è indispensabile concedere a se stessi dei permessi, poiché è molto difficile chiedere rispetto agli altri se noi stessi non siamo convinti di meritarlo.
Per iniziare a scegliere, partiamo da un interessante decalogo dei diritti assertivi, da leggere con attenzione e da tenere a mente quando ci si relaziona con gli altri:
Posso avere delle idee, delle opinioni, dei punti di vista personali non necessariamente coincidenti con quelli altrui.
Permetto che le mie idee, opinioni e punti di vista siano quanto meno ascoltati e presi in considerazione (non necessariamente condivisi) dalle altre persone.
Posso richiedere (non pretendere!) che le altre persone soddisfino i miei bisogni e necessità.
Posso dire “NO” a delle richieste senza per questo sentirmi in colpa ed egoista.
Posso avere bisogni e necessità anche diversi da quelli delle altre persone.
Posso provare determinati stati d’animo e manifestarli in modo assertivo se decido di farlo.
Posso commettere errori.
Posso cambiare parere o opinione e cambiare il modo di pensare.
Posso essere realmente me stesso anche se questo significa a volte contravvenire a delle aspettative esterne.
Rivolgersi ad uno Psicoterapeuta è una scelta spesso tormentata, oggetto di numerose ponderazioni, di decisioni prese e prontamente ritrattate, spesso ci si arriva “in emergenza”, quando si sta troppo male per poter contare ancora solo sulle proprie forze.
Una domanda tipica di chi si rivolge ad uno Psicoterapeuta è: “Ma sono diventato matto?”. In realtà tutti, almeno una volta nella vita, sperimentiamo un disagio psicologico che può essere più o meno invalidante, che costituisce un cambiamento rispetto ad una situazione precedente di benessere e può colpire tutte le aree di funzionamento della nostra vita (affettiva, sociale, lavorativa).
PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA O PSICHIATRA?
Psicologo, Psicoterapeuta e Psichiatra non sono la stessa cosa, ciò che li differenzia è il percorso di studi e la possibilità di prescrivere o meno farmaci.
Lo Psicologo è un professionista che ha una laurea in Psicologia, svolge un anno di tirocinio pratico, in seguito al quale può accedere all’Esame di Stato. Il superamento di tale esame permette l’iscrizione all’Albo degli Psicologi, che è regionale.
Lo Psicoterapeuta è uno Psicologo o un Medico autorizzato ad esercitare la psicoterapia in seguito alla frequentazione di un corso quadriennale di specializzazione, accreditato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Gli Psicoterapeuti sono iscritti ad un’apposita lista dell’Ordine degli Psicologi.
Lo Psichiatra è un Medico con specializzazione in psichiatria; può prescrivere farmaci e può richiedere esami clinici.
COME SI SVOLGE UN COLLOQUIO?
Durante il primo incontro, che è conoscitivo, vengono accolti i motivi che hanno spinto la persona a chiedere un intervento psicologico e si chiarisce qual è la metodologia adottata e i costi. Vengono concordati obiettivi e modalità, mentre la durata globale dell’intervento non è definibile a priori, in quanto dipende dall’entità del disturbo e dalla motivazione al cambiamento della persona.
La durata complessiva di una seduta è di 45-60 minuti, tempo esclusivo interamente dedicato alla persona, senza alcun tipo di interruzione.
CI SONO DELLE REGOLE?
La frequenza dei colloqui è valutata in base alla problematica psicologica ed alla disponibilità personale: la psicoterapia inizia con una seduta settimanale ma, nel corso del suo svolgimento, è possibile adeguarla ai cambiamenti personali e della relazione terapeutica.
Lo psicologo è vincolato al rispetto del Codice Deontologico degli Psicologi italiani, in particolare è strettamente tenuto al segreto professionale (Art. 11).
QUANTO COSTA?
Il compenso della prestazione professionale proposta è stabilito sulla base del tariffario dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, il suo importo viene preventivamente comunicato dal professionista.
Articolo scritto da: Roberta Marangoni, Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense
L’ansia è un’emozione necessaria nella nostra vita, in quanto ha la funzione di segnalare situazioni di pericolo, permettendoci così di affrontarle ricorrendo alle risorse mentali e fisiche più adeguate: per esempio, se stiamo attraversano la strada e una macchina viene verso di noi senza rallentare, proviamo paura e corriamo per proteggerci. E’ però necessario che essa rimanga “entro certi livelli”, superati i quali riduce la capacità di pensare lucidamente e di risolvere i problemi.
I SINTOMI
Rispetto alle preoccupazioni normali, quelle che caratterizzano il disturbo d’ansia risultano:
più numerose, frequenti, durature, intense, invasive e pervasive;
di rapida successione (ad una ne segue subito, o quasi, un’altra);
accompagnate da emozioni di ansia intensa;
relative ad eventi futuri improbabili;
scollegate da fattori precipitanti;
accompagnate da sintomi fisici;
difficili da controllare e da rimandare ad altri momenti.
In sostanza l’ansia tende ad essere eccessiva, pervasiva, poco controllabile e interferisce notevolmente con il funzionamento normale della persona.
Oltre alle preoccupazioni, il disturbo d’ansia si manifesta con sintomi fisici: sindrome della gambe senza riposo; facile faticabilità; difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria; irritabilità; tensione muscolare, muscoli tesi, a volte doloranti, a volte tremori; sonno disturbato (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno). Possono inoltre essere presenti bocca asciutta, mani appiccicose, sudorazione, brividi dl freddo, nausea, diarrea, difficoltà a deglutire e nodo alla gola.
LE CONSEGUENZE
Chi soffre d’ansia ha difficoltà ad impedire che le preoccupazioni interferiscano con l’attenzione verso le attività che sta svolgendo, con una conseguente compromissione del funzionamento lavorativo e sociale. Inoltre la continua richiesta di rassicurazioni alle persone care può, a lungo andare, compromettere le relazioni interpersonali.
La presenza di eccessive preoccupazioni e la difficoltà a gestirle possono produrre una diminuzione del senso di efficacia personale e della stima di sé, che spesso conducono ad una depressione secondaria.
Altra frequente conseguenza del disturbo d’ansia è l’abuso di sostanze psicoattive (es. farmaci, droghe), a cui la persona può ricorrere come tentativo di gestire il disturbo stesso o la depressione che ad esso può seguire.
CHE FARE?
Le persone ansiose tendono generalmente a mettere in atto una serie di comportamenti (richiesta di rassicurazioni, evitamento delle situazioni temute, tendenza al perfezionismo, tentativi di sopprimere attivamente le preoccupazioni) che mantengono il disturbo nel tempo.
I trattamenti riconosciuti come più efficaci per la cura del Disturbo d’Ansia Generalizzato sono la psicoterapia e la farmacoterapia; quest’ultima spesso è evitata da chi soffre d’ansia per la “paura” di sviluppare una dipendenza dai farmaci.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato ampiamente e scientificamente la propria efficacia: si tratta di un tipo di psicoterapia in cui paziente e terapeuta sono attivamente impegnati nella comprensione del problema e nella condivisione di obiettivi terapeutici concreti e verificabili.
Nel corso del trattamento la persona portatrice del disagio è aiutata a prendere consapevolezza dei circoli viziosi dell’ansia e a liberarsene gradualmente attraverso l’acquisizione di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali.
Articolo scritto da: Dott.ssa Roberta Marangoni, Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologa Forense
Negli ultimi anni, in seguito ad un incremento delle istanze di separazione con il coinvolgimento di minori, gli studi scientifici si sono focalizzati sugli aspetti traumatici dei vissuti psicologici dei figli esposti alla separazione genitoriale. Se fino alla metà degli anni ‘70 si riteneva fattore causale della psicopatologia dei figli il passaggio da una famiglia bigenitoriale ad una monogenitoriale, negli ultimi anni la separazione di per sé non è più considerata un evento in grado di determinare difficoltà nel minore, ma l’accento viene posto sulle modalità con cui i genitori gestiscono la crisi coniugale.
La separazione è il punto di arrivo di un processo graduale, con tensioni e conflitti che si snodano nel tempo ben prima che essa avvenga e con delle ripercussioni a lungo termine, anche molto distanti nel tempo dal momento della separazione stessa. Numerose ricerche evidenziano che una famiglia integra ma conflittuale è più dannosa per un figlio rispetto ad una situazione in cui la coppia genitoriale sia separata ma stabile e serena. Se dopo il divorzio si riduce il conflitto tra i genitori, i figli ne traggono giovamento e il loro adattamento è migliore rispetto a quello di figli di genitori in cui persiste un rapporto conflittuale.
La separazione dei genitori rappresenta, comunque, un’esperienza emotivamente importante per i figli, spesso causa iniziale di sofferenza psicologica, in quanto è un evento destabilizzante, che impone un cambiamento. Ai figli viene spesso chiesto di trasformare profondamente le proprie abitudini quotidiane e le consuete modalità di relazione con i genitori ed essi possono attraversare un momento di confusione e di disordine emotivo, dovuto alla diminuzione del senso di stabilità e di sicurezza di cui, durante il percorso di crescita, hanno un estremo bisogno.
Comunicare ai propri figli, con un linguaggio adatto alla loro età, ciò che sta succedendo tra i genitori, senza attribuire colpe e responsabilità e chiarendo che le difficoltà riguardano il rapporto coniugale e non quello genitoriale, aiuta i figli a contenere le possibili paure e angosce, permette loro di riconoscerle e confrontarle con una percezione condivisa dal genitore.
Diversamente, se i figli fanno da spettatori ad accuse reciproche, offese, minacce, e vengono coinvolti attivamente in un “gioco” familiare in cui è richiesto loro di assumere dei ruoli e di schierarsi con l’uno o l’altro genitore o di mediare il conflitto, sono maggiormente esposti al rischio di sviluppare problemi emotivi e comportamentali. Quando i coniugi si rapportano con alta conflittualità, occupati ciascuno a difendere il proprio orgoglio ferito, rischiano di mettere in secondo piano i bisogni dei figli o di confonderli con i propri, sono meno disponibili con i figli, che di conseguenza cercheranno sempre più l’attenzione dei genitori, generalmente con comportamenti non corretti.
I figli inoltre tendono a sentirsi “colpevoli e responsabili” delle difficoltà tra i genitori e questo li porta, in non pochi casi, a sperimentare importanti vissuti di colpa, specie quando le discussioni riguardano questioni relative a loro (orari di visita, scelte educative ecc). I bambini più piccoli addirittura possono fantasticare di influenzare, con il proprio comportamento, il conflitto tra i genitori. Le tensioni che si trasmettono ai figli vanno ad incidere sul loro senso di sicurezza e sul loro equilibrio psichico, influenzando anche il loro modo di percepire gli eventi, ad esempio possono diventare maggiormente sensibili e reattivi in situazioni conflittuali lievi a causa delle aspettative negative.
E’ dunque necessario che i coniugi che si separano si impegnino ad aiutare i figli ad accettare il cambiamento familiare: ⇒ dando continuità al legame parentale, ⇒ accordandosi sulle scelte più opportune per loro, ⇒ mantenendosi come un coerente riferimento affettivo ed educativo, ⇒ conservando intatta nella mente dei figli quell’immagine rassicurante così importante per la loro crescita, ⇒ offrendo loro un aiuto per affrontare la sofferenza del cambiamento.
E’ fondamentale per un figlio sentire che i propri genitori, al di là del loro ruolo decaduto di marito e di moglie, sono in grado di mantenere la loro funzione di padre e di madre nell’assicurargli continuità nel rapporto affettivo.
Pubblico l’abstract di un progetto innovativo e molto interessante, in fase di svolgimento presso la Residenza Anni Azzurri di Villadose (RO), ideato dalla Fisioterapista Sylwia Milczarczyk e integrato da me insieme alla collega Elisabetta Rizzo, per la parte di valutazione dello stato cognitivo e psicologico e del grado di soddisfazione.
Il progetto verrà presentato al IX CONVEGNO NAZIONALE di PSICOLOGIA DELL’INVECCHIAMENTO che si terrà a Padova il 20 e 21 maggio 2016.
Residenza Anni Azzurri Sant’Anna:
le tecnologie integrate nel contesto di vita.
Rizzo E., Marangoni R., Milczarczyk S. Residenza Anni Azzurri Sant’anna di Villadose (RO)
I recenti studi e le ricerche internazionali hanno dimostrato che l’utilizzo di nuove tecnologie, come la WII (console per videogiochi), nella riabilitazione neuromotoria, permette di mantenere/migliorare l’autonomia residua dell’anziano residente in struttura. Tali studi sanciscono che l’utilizzo di strumenti tecnologici migliora anche lo stato cognitivo ed emotivo.
Obiettivi: Gli obiettivi che ci si è posti sono: migliorare le funzioni motorie; incrementare l’autostima; favorire la socializzazione.
Metodo: I destinatari sono anziani con rischio di caduta, integrità cognitiva totale o parziale, condizioni di stabilità clinica, deambulanti e/o che necessitano di ausili. Sono stati utilizzati test di valutazione multidimensionale specifici: scale Barthel, Tinetti e Six minutes Walking Test per l’aspetto motorio, Geriatric Depression Scale per lo stato psicologico, Mini Mental State Examination per lo stato cognitivo globale; inoltre è stato creato uno strumento ad hoc per valutare il grado di soddisfazione. L’allenamento consiste in due incontri settimanali della durata di un’ora ciascuno per un periodo di tempo di cinque mesi.
Osservazioni: Il progetto è in fase di svolgimento, i dati preliminari hanno dato un riscontro positivo in termini di benessere psicologico; inoltre ci attendiamo che: 1) l’utilizzo della WII incrementi le abilità visuo/motorie e l’equilibrio; 2) l’apprendimento di nuove abilità legato all’utilizzo della console sia applicato nello svolgimento delle attività di vita quotidiana; 3) I punti 1 e 2 determinino un aumento dell’autostima, con maggiore spinta motivazionale nello svolgere una vita più attiva; 4) Il divertimento nel fare riabilitazione “giocando” faciliti la socializzazione e aumenti il benessere percepito.
La violenza degli uomini sulle donne è un argomento di inquietante quotidianità, le cronache settimanalmente riportano storie di donne uccise per mano maschile, nella maggior parte dei casi partner o ex partner.
Il rapporto Eures-ANSA evidenzia che nei primi sei mesi del 2013 sono state uccise in Italia 81 donne, di cui il 75% nel contesto familiare o affettivo, e che ogni giorno in Italia viene colpita da atti di violenza (fisica, verbale e psicologica) una donna ogni 12 secondi.
Secondo l’ISTAT una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, è stata vittima, nell’arco della propria vita, dell’aggressività di un uomo, e nel 63% dei casi alla violenza hanno assistito i figli.
La violenza maschile sulle donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio è la manifestazione più estrema.
Diverse sono le forme di violenza che un uomo può perpetrare:
a) La violenza fisica è quella più facilmente individuabile. Non riguarda solo l’aggressione fisica grave, che causa ferite richiedenti cure mediche di emergenza, ma anche ogni contatto fisico che mira a spaventare e a rendere la vittima soggetta al controllo dell’aggressore (spingere, strattonare, impedire di muovere trattenendo l’altro, rompere o danneggiare oggetti nella vicinanza della vittima, picchiare, prendere per il collo, schiaffeggiare, mordere, causare bruciature di sigarette, tirare calci, pugni, strappare i capelli, chiudere la donna in una stanza o fuori casa). Nel maltrattamento fisico la componente psicologica più pesante consiste nella imprevedibilità dell’aggressione, in quanto qualsiasi motivo può essere un pretesto scatenante; la vittima impiega di conseguenza ogni energia per evitare qualunque comportamento che potrebbe provocare una reazione aggressiva verbale o fisica del partner.
b) La violenza psicologica è date da una serie di atteggiamenti dell’uomo sia intimidatori e minacciosi (ricatti, insulti verbali, colpevolizzazioni), sia vessatori e denigratori (ridicolizzazioni, svalutazioni continue, denigrazione ed umiliazione), attuati sia pubblicamente sia privatamente. Fanno parte della violenza psicologica anche le tattiche di isolamento messe in atto dal partner (ad es. osteggiare/impedire alla compagna di frequentare i propri amici e familiari).
La donna che vive tali soprusi perde completamente la stima di sé, sviluppa insicurezza, paura, tanto da dover spesso necessitare in seguito di una terapia psicologica. Si tratta di una forma di violenza subdola, perché mira a combattere l’identità dell’altro ed a privarlo di ogni individualità, all’interno di un rapporto perverso di coppia i cui membri adottano posizioni complementari, uno aggressore e l’altro vittima. Il comportamento che la donna assume, per evitare la violenza, è di responsabilizzare eccessivamente sé stessa, di attivarsi per cercare di soddisfare tutti i compiti e le richieste che le vengono fatte dall’abusante, continuamente attenta a non scatenare la sua rabbia e a dimostrare la propria adeguatezza come partner e come madre.
c) La violenza economica è data da una serie di atteggiamenti volti ad impedire che il partner diventi o possa diventare economicamente indipendente, al fine di poter esercitare su di esso un controllo indiretto, ma estremamente efficace. Tra questi atteggiamenti rientrano, ad esempio, l’impedire la ricerca di un lavoro o del suo mantenimento, la privazione od il controllo dello stipendio, il controllo della gestione della vita quotidiana ed il mancato assolvimento degli impegni economici assunti con il matrimonio.
d) La violenza sessuale consiste nell’imporre rapporti sessuali o pratiche sessuali non desiderati. Può assumere diversi aspetti quali, ad esempio, il desiderio del partner di avere un rapporto sessuale dopo aver picchiato e/o umiliato la donna, la messa in atto dello stesso mediante la forza o mediante ricatti psicologici, l’imposizione di pratiche indesiderate, o di rapporti che implichino il far male fisicamente e/o psicologicamente.
Le ricerche criminologiche dimostrano che su 10 femminicidi, sette sono in media preceduti da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità, dunque l’uccisione della donna non è che l’atto ultimo di un continuum di violenza di carattere psicologico, fisico o economico.
I media spesso, nel trattare le notizie di violenza sulle donne, adottano una inammissibile superficialità, attribuendo il comportamento dell’uomo ad un raptus, ossia ad un impulso improvviso e incontrollato, ed in tal modo “giustificandolo” (es. di titoli di cronaca: “Strangolata dal marito con un foulard. Raptus di gelosia per alcuni SMS”; “Raptus di gelosia, accoltella due donne”; “-Sono pentito, è stato un raptus-. La confessione del kosovaro al GIP”).
La storia delle donne uccise racconta però di maltrattamenti e/o violenze ricorrenti subite dai partner, di pedinamenti, di aggressioni verbali e fisiche, di vere e proprie persecuzioni, che durano negli anni, spesso denunciate alle forze dell’ordine, senza un esito positivo a breve termine.
Che cosa accade nella testa di questi uomini violenti?
Innanzitutto non c’è una “tipologia dell’uomo violento”, nella maggior parte dei casi si tratta di uomini, come riferisce Baldry (2005), che hanno una loro vita sociale normale, relazioni amicali e lavorative soddisfacenti, uomini insospettabili provenienti da diversi contesti socio-culturali. Alcuni di questi fanno uso abituale di alcol o di sostanze stupefacenti, ma ciò non spiega comunque i comportamenti violenti, che non cessano quando viene meno l’uso di sostanze. In alcuni casi il comportamento violento si riscontra in uomini affetti da un disturbo di personalità; Edwards et al. (2003) hanno dimostrato che vi è una percentuale più alta di disturbi antisociale e borderline nella popolazione degli uomini violenti verso le donne, disturbi importanti che andrebbero identificati ed affrontati con una psicoterapia.
La violenza nasce da un sentimento di helplessness, di fragilità, considerata inaccettabile, alla quale l’uomo cerca di resistere picchiando. Spesso queste persone sono cresciute in ambienti violenti, umiliate o maltrattate dalle figure di riferimento. Come evidenziato da Straus (1998), se un bambino assiste a violenza sistematica da parte di un genitore verso l’altro genitore o verso un fratello o se egli stesso subisce violenza, è più facile che poi utilizzi la violenza quando si trova in condizioni di stress. I bambini che assistono a conflitti familiari caratterizzati da alti livelli di aggressività espressa sono da tempo considerati vere e proprie vittime di maltrattamento (Documento Cismai, 2005), sia perché, in sé, il comportamento violento risulta traumatizzante, sia perché il genitore violento fallisce nel compito protettivo, non preservando i figli dall’esposizione alla propria violenza.
Le donne non devono illudersi di “cambiare” l’uomo violento con il proprio amore, devono invece prestare la massima attenzione a quei segnali che indicano la presenza di un potenziale rischio. Ogni segnale di violenza, anche il più piccolo (un pugno improvviso sul tavolo, una gelosia costante, …), non deve essere sottovalutato.
Bibliografia
Amann Gainotti, M. La violenza domestica. Comunicazione presentata alla Giornata di Studio “I Centri Antiviolenza a Roma e in Italia: prassi e ricerca” – 23 Febbraio 2007. Facoltà di Scienze della Formazione – Università di Roma Tre.
Baldry, A. C. (2005). Violenza di genere nelle relazioni di coppia: i centri antiviolenza come luogo di sostegno e di aiuto delle vittime, in: Amann Gainotti, M. – Pallini, S. (a cura di), Larelazione con l’altro/a. Prospettive psicologiche, interculturali e di genere, p. 83-91, Atti della Giornata di studio del 17 marzo 2005, Quaderni n. 3, Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre, Roma.
Bartolomei, C. (a cura di) (2007). Analisi del comportamento maltrattante e delle tipologie di maltrattamento in famiglia. Psycheforum, Associazione di psicologia Giuridica e Forense.
CISMAI (documento), 2006. Requisiti minimi dei servizi che si occupano di maltrattamento e abuso, Prospettive sociali e sanitarie, 5, p. 19-20.
Edwards, D. W., Scott, C. L., Yarvis, R. M., Paizis, C. L., Panizzon, M. S. (2003). Impulsiveness, Impulsive Aggression, Personality Disorder, and Spousal Violence. Springer Publishing company.
Spinelli, B. (2008). Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale.Franco Angeli, Roma.
Straus, M. A. (1998). The controversy over domestic violence by women: a methodological theoretical and sociology of science analysis. Family Science Laboratory. University of New Hampshire, Durham.
Studio Psicologia
Piazzale Lionello Caffaratti, 7, 45100 Rovigo RO
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